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Quadriennale di Roma: Dario Picariello, studio visit di Angel Moya Garcia


Dario Picariello ha conseguito la laurea in Arti visive presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino e il master in Photography and Visual Design presso la Nuova Accademia delle Belle Arti di Milano – NABA. Attraverso la fotografia, la scrittura o il ricamo, le sue opere restituiscono una narrazione in bilico tra passato e presente. Uno studio antropologico che tende a fare rivivere la storia di un luogo e a riscrivere i racconti tramandati per arrivare a una più ampia narrazione della tragicità dell’esistenza umana.


La sua indagine parte da un dato territoriale; cresciuto in un contesto come quello del sud Italia, che vive nel culto della tradizione, Picariello convoglia nei suoi lavori racconti popolari di un mondo che solo apparentemente non esiste più. Concentrandosi sugli aspetti folkloristici e su tutte le contraddizioni che questi racchiudono, le sue opere si sviluppano attraverso la costruzione meticolosa di immagini tratte da quel contesto contadino per comporre una mitologia del proprio territorio. L’ossessione per il tema dell’identità, l’appartenenza e l’utilizzo degli archivi personali e digitali come materia prima, collegano la sua ricerca a tutta una serie di artisti che rinunciano a una mera ricostruzione archeologica del passato per affrontare la propria autobiografia come strumento di proiezione verso il presente e verso la collettività.


A differenza dei primi lavori, quelli più recenti rivelano una volontà di sottrazione e di distruzione dell’immagine fotografica. La serie Cicli, avviata nel 2020, prende spunto dalle tradizioni dei canti popolari ed è composta da sette raccolte, ognuna dedicata a un argomento specifico della tradizione orale: l’infanzia, l’amore non corrisposto, l’amore violento, l’amore ideale, il lavoro, i riti nuziali e, infine, i riti funebri. In questa serie Picariello si avvale di fotografie prelevate da diversi archivi digitali che vengono successivamente incise con strisce di carta provenienti dalla decostruzione di alcuni romanzi destinati al macero. Una stratificazione tra immagine e parola che si intreccia e in cui emerge un’estetica seducente, utilizzata come una ‘trappola’ per l’osservatore, che soltanto in un secondo momento scopre il significato dei testi celati a un primo sguardo superficiale.

Proprio perché nutrito di folklore e di cultura meridionale, il suo lavoro può correre il rischio di rimanere intrappolato in un ambito circoscritto e autoreferenziale. Allo stesso tempo, l’accostamento tra le fotografie di archivio e le storie veicolate nelle strisce di carta, in cui l’immagine sembrerebbe didascalia della storia, potrebbe ridurre l’effetto di immaginazione desiderato, potrebbe incorniciare una serie di letture possibili in un ambito ristretto di opzioni e, in certe occasioni, potrebbe diventare fuorviante rispetto alla narrazione tragica che è alla base della sua ricerca.


Tuttavia, il canto popolare, tramandato per via orale, implica che tutta una collettività possa condividere e riscrivere una determinata tradizione, mentre le problematiche, le condizioni mentali di appartenenza a un sud e soprattutto gli argomenti che vengono narrati, rappresentati o evidenziati, possono essere facilmente condivisibili, seppur con applicazioni, derivazioni o soluzioni diverse nella maggior parte dei contesti. La relazione tra fotografia e narrazione diventa nella maggior parte delle volte equilibrata e accurata, mentre incuriosisce come, qualora riesca a svincolarsi dalla sicurezza dell’immagine fotografica come supporto ai contenuti, il ricamo, le incisioni e il testo possano incrementare l’incisività di un lavoro maturo, strutturato e ancora con un ampio margine di sviluppo.

Angel Moya Garcia


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